da Sylvia Plath e Stefania Caracci
Trattamento teatrale, luci e regia di Maria Inversi
Con Mara Camelin, Barbara Manzato, Beatrice Orlandini
Musiche di Lester Bowie, Gavin Bryars, Claude Debussy, C. Mulbacher, Eric Satie, Bob Stewart
Suicida l'11 febbraio del 1963, poco più che trentenne, la Plath rappresenterà per le femministe, negli anni subito successivi la sua morte, l'identità femminile vittima del sistema patriarcale e maschilista. Il marito Ted Hughes, noto poeta inglese, l'aveva abbandonata per un'altra donna nel 1962, anno in cui la Plath dovette affrontare altre difficili prove: problemi economici, ospedalizzazioni, trasloco, nuovi stili di scrittura. Per molti mesi nasconderà a se stessa e agli altri l'abisso in cui stava sprofondando, recitando il ruolo della donna "normale", "forte" e "indipendente".
Due attrici e una danzatrice in scena a raccontare l'io in pezzi che si ricompone attraverso l'atto creativo intriso di gioia, passione, forza e fragilità e dunque, una Sylvia ombrosa e solare capace di proiettarsi nel futuro e dare forma alla sua libertà, fino al momento in cui, l'io stanco, cade per non rialzarsi, non sognare più. Consegna Sylvia i figli alla vita e se stessa, senza dolore, alla morte.
La regia, che si è servita di alcune parti di un racconto di Stefania Caracci e di alcune frasi della Plath enucleate da lettere, diari, e poesie, ha utilizzato l'elemento del gioco, lo stesso che la Plath aveva instaurato con la vita, certa che la sua genialità avrebbe prevalso. Attrici e danzatrice sono chiamate a giocare sui sensi e sui ritmi della scrittura. Gli elementi scenografici ricostruiscono la relazione simbolica di Sylvia con il mondo esterno e quello interiore: conflittuale, poetico e lunare.